a cura della dott.ssa Alessia Facineroso
Gli avvenimenti religiosi, in Sicilia, seguono una periodizzazione peculiare, che si discosta almeno in parte dalle tappe che scandiscono la vicenda politica e culturale dell’isola. Pertanto, possiamo considerare come punto d’avvio della storia contemporanea il 1728, anno in cui con la bolla Fidelia ac prudenti pensatori, emanata da papa Benedetto XIII, viene riaffermata la giurisdizione del Tribunale di Regia Monarchia sulla Chiesa siciliana, e si determina quindi una sostanziale pacificazione tra il potere spirituale e quello temporale, in lotta da anni a causa della controversia sull’Apostolica Legazia. In questo modo, se le dispute tra regalisti e curialisti non cessano del tutto (di fatto si protrarranno fino alla soppressione dell’istituto, nel 1864) tuttavia è possibile giungere ad un clima di collaborazione e di reciproco riconoscimento che – nell’ambito della sempre più pesante influenza delle idee illuministe sul contesto isolano – porta alla realizzazione di importanti riforme, tra cui spicca la pubblica soppressione dell’Inquisizione, avvenuta il 26 marzo 1782, i cui protagonisti sono il viceré Domenico Caracciolo e il vescovo Salvatore Ventimiglia, dimesso dal governo episcopale della Diocesi di Catania e nominato Inquisitore Supremo, che chiede – e ottiene – la distruzione dell’archivio con gli atti dei processi del terribile Tribunale.
Lo slancio di rinnovamento che coinvolge il rapporto tra Chiesa e Stato si concretizza, da quel momento in avanti, in una serie di interventi volti a limitare la giurisdizione ecclesiastica in favore di quella “temporale”: in questo senso va intesa l’espulsione dei gesuiti dall’isola, nel 1767, e l’abolizione della chinea (un tributo feudale versato dal sovrano al Pontefice) nel 1788. Contemporaneamente, la più forte ingerenza della monarchia negli affari religiosi porta alla richiesta di istituzione di nuove diocesi da parte del Parlamento siciliano all’indirizzo di re Ferdinando III (cui la Legazia Apostolica conferiva il diritto di fondare ex novo sedi episcopali), che a partire dai primi anni ’80 del Settecento affida un’indagine conoscitiva alla Deputazione del Regno per un riesame complessivo delle circoscrizioni ecclesiastiche. Ad avanzare la richiesta sono i centri di Caltagirone, Castrogiovanni, Lentini, Nicosia, Noto, Piazza Armerina, Taormina, Trapani e Troina, ma questo ovviamente provoca l’immediata ostilità delle diocesi esistenti, che – unita agli effetti della Rivoluzione francese – costringe la monarchia a rinviare il progetto, ripresentato solo nel 1802 e nuovamente bloccato in seguito alla “fuga” della Corte a Palermo dopo l’invasione di Napoli da parte di Murat.
Tuttavia, è proprio la permanenza sull’isola dei sovrani a rivelarsi decisiva per le istanze dei centri siciliani: proprio la creazione delle sedi vescovili diventa infatti lo strumento attraverso cui Ferdinando può garantirsi l’appoggio delle classi dirigenti locali e delle gerarchie ecclesiastiche, chiedendo al Pontefice di assecondare le istanze di Caltagirone, Nicosia e Piazza Armerina, promosse al rango di diocesi all’indomani del Congresso di Vienna, tra il 1816 ed il 1817.
Sono invece i moti rivoluzionari del 1837 a permettere la realizzazione delle richieste delle altre città: proprio per premiare la fedeltà dimostrata in quella circostanza nei confronti della monarchia, infatti, nel 1839 il sovrano decide di promuovere le sedi di Trapani, Caltanissetta e Noto (che beneficia in questo frangente anche del ruolo di Capovalle a scapito della “ribelle” Siracusa). Politica è anche la contemporanea creazione della diocesi di Acireale, sottratta alla giurisdizione di Catania, punita per la sua partecipazione ai moti.
È proprio nell’ambito di questa crescente ingerenza della politica nella vita religiosa siciliana che si inserisce la vicenda del 1848: in occasione della nuova ondata rivoluzionaria, infatti, il controllo della monarchia sull’operato del clero isolano si fa più serrato, e dopo la restaurazione Ferdinando II emana un drastico provvedimento che impedisce l’ammissione di nuovi postulanti al noviziato e alla professione.
Tuttavia, i religiosi non restano a guardare, e proprio a partire dal “biennio terribile” maturano una progressiva consapevolezza della loro responsabilità pastorale e si rendono conto della necessità di riforme radicali nell’organizzazione sia materiale che spirituale delle diocesi: proprio per questo chiedono e ottengono la possibilità di celebrare un’assemblea di vescovi, che si tiene a Palermo dal 2 al 24 giugno 1850. Il consesso sfocia in importanti risoluzioni: i prelati danno chiare indicazioni in merito al discernimento delle vocazioni e alle responsabilità dei sacerdoti; auspicano la formazione di un clero motivato e sempre più distante dalle lusinghe della vita comoda; procedono alla riforma del clero regolare auspicando il recupero degli ideali più genuini dei diversi ordini.
Si tratta di un importante passo in direzione di una maggiore autonomia della Chiesa siciliana dal potere politico: pochi anni più tardi, il 2 febbraio 1856, il governo napoletano concede infatti l’esecutoria al breve Peculiaribus, con il quale Pio IX dichiara di riconoscere le dispense matrimoniali a vantaggio dei poveri (concesse dal giudice della Regia Monarchia) solo se chieste di volta in volta alla Curia romana, e soprattutto vieta ai magistrati di intervenire contro le sanzioni disciplinari comminate dai vescovi ex informata conscientia. L’entrata in vigore del breve rappresenta, insomma, una netta vittoria dell’episcopato e dei curialisti siciliani, e la vittoria è ancora più forte l’anno successivo, quando Ferdinando II accetta di mitigare il rigido controllo governativo sugli atti ecclesiastici, e affida ai vescovi la vigilanza sulle scuole.
Nonostante ciò, la difesa dell’Apostolica Legazia continua ad essere oggetto di discussione soprattutto fra i liberali siciliani, che iniziano a pensare sempre più insistentemente alla possibilità dell’unificazione italiana, alimentando il dibattito sui suoi tempi e sulle sue modalità: nell’ambito di tale prospettiva, il privilegio del potere politico siciliano nei confronti di quello ecclesiastico viene caldeggiato sia dagli anticlericali, proprio in ragione dell’autonomia dal Pontefice, sia dalle classi dirigenti e da una parte dello stesso clero locale, entrambi ansiosi di mantenere le tradizionali “peculiarità” siciliane.
All’indomani dello sbarco dei Mille a Marsala, dunque, anche il nuovo Dittatore Garibaldi viene indotto a fare della Legazia uno strumento imprescindibile del governo dell’isola: prova tangibile è il suo intervento alla solenne cappella reale celebrata il 15 luglio 1850 (in occasione dei festeggiamenti in onore di Santa Rosalia) presso la cattedrale di Palermo. È così che durante la complessa transizione al nuovo Stato – che registra l’immediata ostilità del Vaticano e la sua contrapposizione frontale ai democratici, ansiosi di arrivare a Roma e farne la capitale d’Italia – al giudice del Tribunale di monarchia vengono rafforzate le competenze, per controllare il clero e impedire l’esecuzione degli interventi disciplinari della Curia romana nei confronti del clero favorevole alla rivoluzione. Intanto, Garibaldi procede a misure di riforma che colpiscono drasticamente la Chiesa siciliana: l’incameramento dei capitali e delle rendite delle opere di beneficienza; lo scioglimento delle comunità dei redentoristi e dei gesuiti, espulsi dal territorio italiano e privati dei loro beni in favore del Demanio; l’imposizione di una tassa del 2% sulla rendita degli immobili degli ordini religiosi, dei vescovadi e delle altre istituzioni ecclesiastiche; l’abolizione delle decime; la censuazione dei fondi rurali e urbani, preludio alla successiva concessione in enfiteusi dei fondi ecclesiastici, definitivamente sancita dalla legge Corleo del 1862.
A conferma del «braccio di ferro» tra Stato e Chiesa, il decreto del prodittatore Antonio Mordini del 19 ottobre 1860 ribadisce, all’articolo 2, la difesa delle prerogative dell’Apostolica Legazia e del Tribunale di Regia Monarchia. Tale difesa viene poi continuata con convinzione dal Consiglio Straordinario di Stato, che assume questi due istituti come presupposti imprescindibili su cui si è fondata e poggia ancora la peculiare condizione – tanto religiosa che politica – della Sicilia: attraverso la tutela delle prerogative “speciali” dell’isola, insomma, il Consiglio spera di ottenerne il riconoscimento dell’autonomia amministrativa nell’ambito dell’Italia unita.
Gli esordi del nuovo Stato sembrano, effettivamente, confermare le richieste dei siciliani: a Palermo, il 1° dicembre 1860, è lo stesso sovrano Vittorio Emanuele II a riconoscere ed affermare solennemente le peculiarità dell’isola, promettendo di «mantenere salve le antichissime prerogative che sono il decoro della Chiesa siciliana e presidio della potestà civile».
Tuttavia, a quelle dichiarazioni di principio non seguono i fatti: l’arrivo dei funzionari della Luogotenenza piemontese segna infatti l’esordio di una stagione di rigido accentramento politico ed amministrativo, che coinvolge in breve anche l’ambito religioso e che provoca uno scontro sempre più forte tra Torino e la Santa Sede. Il governo italiano si sente infatti pienamente erede dei diritti legaziali e – mentre nel resto della penisola esercita l’exequatur solo per la scelta dei benefici maggiori – in Sicilia interviene invece anche per la designazione dei vescovi, causando l’immediata reazione di Roma e la vacanza di sedi, anche per periodi lunghi, ad Agrigento (12 anni), Noto (8 anni), Caltagirone e Piazza Armerina (5 anni), Catania e Messina (6 anni), Monreale e Siracusa (4 anni). Ad inasprire la controversia interviene poi la legislazione dei primi anni ’60, che annovera – oltre alla già citata legge Corleo del 1862 – la precedenza del matrimonio civile su quello religioso, la soppressione degli enti secolari e la liquidazione dell’asse ecclesiastico, varati tra il 1866 ed il 1867.
Ma la conseguenza più dirompente della contesa tra Stato e Chiesa è probabilmente l’abolizione della Legazia Apostolica e del Tribunale della Regia Monarchia, sancita da Pio IX nel 1864 con la bolla Suprema universa dominici gregis e con il breve Multis gravissimis, pubblicati tre anni più tardi, proprio dopo l’approvazione delle leggi eversive e seguiti, nel 1868, dal Non expedit, con cui Pio IX dichiara inaccettabile la partecipazione dei cattolici alle competizioni elettorali del nuovo Stato e più in generale alla sua vita politica.